Il “Castello Volante” degli Offlaga Disco Pax – Vent’anni di Socialismo Tascabile
L’attesa è stata lunga. Così lunga che alla fine non ci speri più. Il mondo intanto continua a girare, spesso nel
verso sbagliato: catastrofi naturali, nuovi e vecchi Salvini, genocidi, fascismi, Trump. Tu arranchi, cerchi di
resistere, di sopravvivere. All’improvviso, però, qualcosa si muove. Dopo undici anni di silenzio, gli Offlaga
Disco Pax tornano dal vivo.
Il loro album d’esordio, Socialismo Tascabile (Prove tecniche di trasmissione), uscito nel marzo 2005,
compie vent’anni. Un disco che ha segnato un’epoca e che continua a parlare con lucidità e poesia al nostro
presente. E per celebrarlo, arriva un tour. La gioia è incontenibile. Ed è proprio da questa gioia che comincia
il racconto, più precisamente, da un “Castello Volante” nel cuore della Grecia Salentina.
Un antico maniero dall’architettura imponente, cornice perfetta per eventi letterari, culturali e musicali
come il SEI Festival. Un evento ricco e imperdibile in un luogo accogliente e suggestivo, dove il passato e il
presente si incontrano e cristallizzano il tempo.
L’ambiente è intimo, nonostante gli spazi ampi e dilatati. Il pubblico, composto soprattutto da nostalgici,
accoglie il ritorno degli ODP stretto in un abbraccio simbolico collettivo. Li riconosci subito: volti fieri,
qualche ruga qua e là, occhi emozionati, t-shirt a tema.
Ad aprire la serata, sul palco del fossato, c’è Il Cigno, progetto del musicista e “artivista” romano Diego
Cignitti. La sua musica è un crocevia esplosivo di post-punk, psichedelia, industrial, chitarre elettroniche,
bassi distorti e strumenti etnici. Con una band di sei elementi, porta in tour il nuovo album Buonanotte
Berlinguer, un viaggio sonoro potente e visionario. Fino a quel momento non conoscevo Diego Cignitti. Mea
culpa! Ma dopo il suo live al SEI Festival, mi sono ritrovata risucchiata in un vortice performativo che va ben
oltre la musica convenzionale. Sul palco, Cignitti è magnetico, controverso, spiazzante. Una miscela tra Frà
Bastiano de Il Marchese del Grillo, Borat e Eugene Hütz dei Gogol Bordello. Ironico, teatrale,
destabilizzante. La sua band è parte integrante di questa visione: chitarre elettriche, theremin, cori e
percussioni tribali costruiscono un suono stratificato e viscerale. Buonanotte Berlinguer, terzo capitolo di
una trilogia iniziata con Morte e pianto rituale e Nada! Nada! Nada!, è un’opera distopica che intreccia
riferimenti storici e ideologici, evocando ideali anarchici e comunisti, ma anche visioni personali e
universali. Cignitti non si limita a suonare: provoca e scuote.
In un panorama musicale spesso anestetizzato, Il Cigno è una voce fuori dal coro. Un grido che rompe il
silenzio. Eppure, mi sono sentita un po’ come Jep Gambardella ne La grande bellezza, quando dopo aver
assistito alla “art-performance” di Talia Concept, durante l’intervista, sconsolato, le chiede: “Signorina, mi
spieghi che cos’è una vibrazione!”.
Ma forse è proprio con questa tensione tra il nonsense e la denuncia, tra il surreale e il politico estremo,
che Cignitti riesce a costruire un linguaggio che è suo e solo suo.
Il suo nonsense è pregno di significato. Ogni gesto, ogni parola, ogni citazione è calibrata, mai casuale. È
una forma di resistenza, una provocazione che costringe lo spettatore a pensare e a reagire. È un invito a
perdersi, a lasciarsi destabilizzare, a mettere in discussione le certezze e ad accettare che la nostra libertà,
forse, è solo una menzogna.
Sono circa le 22:30. Giusto il tempo del passaggio di testimone e l’atmosfera cambia radicalmente. Una
voce metallica su base elettronica annuncia finalmente il loro ingresso: è il momento tanto atteso degli
Offlaga Disco Pax.
Sul palco compaiono Max Collini e Daniele Carretti, affiancati da Mattia Ferrarini, chiamato a raccogliere
l’eredità musicale di Enrico Fontanelli, anima elettronica del gruppo, scomparso nel 2014.
La scenografia è minimale ma evocativa: un leggio centrale, due postazioni laterali e un piccolo “muro delle
meraviglie” che sembra uscito da un sogno socialista-pop. Wafer Tatranky, Toblerone, “Trolejbus”, il topo
talpa Krtek, un vecchio elenco telefonico di Reggio Emilia, un dizionario, un modellino di Golf, persino una
copia di Zora la vampira. Oggetti che raccontano un mondo, una poetica, quella inconfondibile degli ODP.
Si parte con Kappler, come nel disco. E subito ci ritroviamo immersi in quella narrazione da bar, dove la
provincia diventa specchio dell’intera società, la politica il “pane quotidiano”. Poi Cinnamon, “con la C”, più
elettronica e ballabile, una telecronaca surreale degli anni ’70 e ’80, raccontata attraverso i chewing gum
dal bancone di un bar.
Prima stoccata al cuore: Parlo da solo, “una canzone sul binario morto dei sentimenti; è una canzone sul
binario morto dei risentimenti”, come la descrive lo stesso Collini, a cui segue Tono metallico standard.
Su una lunga coda strumentale un semplice “Ciao Enrico” squarcia lo spazio e il tempo. Un saluto che
condensa nostalgia, gratitudine e rabbia. Il tono rimane personale, sentito, profondo, è il momento di
Sensibile: la strage di Bologna affiora senza retorica, solo con una malinconia sottile e tagliente.
L’atmosfera si fa apparentemente più leggera. È il momento di: Dove ho messo la Golf?. La ricerca di
un’auto parcheggiata diventa un’odissea personale e ironica; una caccia al tesoro esistenziale, che
attraversa la cultura pop italiana con ironia e malinconia. E Tatranky, accompagnata dal lancio dei wafer sul
pubblico, che trasforma il ricordo di una gita scolastica in Cecoslovacchia in una riflessione su identità e
consumismo.
Max Collini è in forma smagliante: scherza, mima, racconta. Ogni brano è un fotogramma vivido, un
frammento di vita. I suoi testi, recitati più che cantati, mescolano autobiografia, cultura pop, cronaca e
ideologia con una naturalezza disarmante.
Il tempo scorre velocemente. È il momento dell’omaggio “agli Antenati” con Allarme dei CCCP, in una
versione elettronica ancora più potente, pulsante, quasi ipnotica.
Piccola Pietroburgo e De Fonseca ci riportano a Cavriago, alla provincia che non è mai semplice sfondo ma
protagonista assoluta. E infine, Onomastica, con Collini che, sul finale, legge i nomi di chi ha reso possibile la
serata e tutto il tour. Un gesto semplice, poetico, fuori dal tempo.
I bis chiudono il cerchio: Piccola storia ultrà, dove adolescenza e antifascismo si incontrano in curva, e
Robespierre, manifesto puro degli ODP. C’è tutto: infanzia, militanza, sogni, ironia, rabbia, malinconia.
Il concerto è durato poco più di un’ora e mezza, ma sembra sospeso in un tempo altro. Gli ODP sono tornati
perché la loro musica è ancora tremendamente attuale; è lo specchio fedele del nostro sentire. E noi, oggi
come allora, o forse oggi più di allora, ne abbiamo ancora profondamente bisogno. Gli ODP sono tornati.
Per non lasciarci soli in questi tempi bui.
Setlist – Archivio politico-sentimentale (90’)
Kappler
Cinnamon
Parlo da Solo
Tono Metallico Standard
Sensibile
Dove ho messo la Golf?
Tatranky
Enver
Allarme (cover CCCP)
Piccola Pietroburgo
De Fonseca
Onomastica
Bis:
o Piccola storia ultrà
o Robespierre
Articolo di Antonella Di Benedetto
Foto di Corrado Iorfida