Arrivo a Masseria Ferragnano, per la serata del Locus Festival, con qualche minuto d’anticipo, giusto il
tempo di guardarmi intorno e testare la situazione. Tra il pubblico c’è chi gli anni Novanta li ha vissuti
davvero, e chi li ha solo sentiti raccontare. L’aria è calda, tersa, e già si respira quella quiete sospesa che
precede qualcosa di grande. Sono qui per due band che hanno lasciato un’impronta profonda nel panorama
musicale, nazionale e internazionale, e nel mio personale archivio romantico-sonoro. Due gruppi che,
ancora oggi, continuano a lasciare il segno: la loro arte non conosce il passare del tempo. Parlo degli
Almamegretta, storica formazione partenopea in tour per celebrare i trent’anni di Sanacore, album
fondamentale della musica alternativa italiana, e degli scozzesi Mogwai, che presentano dal vivo il loro
nuovo lavoro, The Bad Fire.
Ad aprire la serata sono i Neoprimitivi, una delle band più interessanti e originali della nuova scena
musicale italiana. Il collettivo romano, guidato da Andrea Gonnellini, sale sul palco con uno show che è
molto più di un concerto: è un’esperienza sensoriale. Il loro primo album, Orgia Mistero, unisce diversi
generi come krautrock, protopunk, afro-funk e soul, e si ispira anche alla musica sperimentale italiana degli
anni Sessanta e Settanta. Il nome “Neoprimitivi”, preso da una canzone di Battiato (Shock in My Town),
riflette bene il loro stile diretto, istintivo e senza filtri. Sul palco sono come una creatura in continua
trasformazione: Pietro Rianna, Flavio Gonnellini, Giacomo O’Neil, Martino Petrella, Roberto Callipari ed
Emilia Wesolowska formano un gruppo che sembra arrivare da un altro pianeta. Il loro live è un viaggio
musicale verso un mondo nuovo, come il Globo d’argento del film di Żuławski, dove la musica diventa sia un
linguaggio antico che uno sguardo verso il futuro. Una scarica di energia, libertà e sperimentazione che dà il
via alla serata con grande intensità e poesia.
Alle 21:30 le luci si abbassano. Gli Almamegretta aprono con Ammore Nemico. Raiz è magnetico, intenso,
padrone della scena. La sua voce profonda conduce il pubblico in un viaggio spirituale, oltre la musica, oltre
il corpo e la mente, dentro una Napoli antica e contemporanea, sacra e profana, che riesce a parlare a tutti,
toccando corde intime e universali.
La band, in formazione storica con Gennaro Tesone alla batteria, Pier Paolo Polcari alle tastiere, Federico
Forconi alla chitarra, Albino D’Amato al live dub-mixing e Paolo Baldini al basso, è compatta, precisa,
ipnotica. Il suono è caldo, corposo, spinto da basse frequenze che si trasmettono a tutto il corpo. Le tastiere
e gli effetti dal vivo creano quel mix unico di reggae, dub ed elettronica che è da sempre il loro marchio di
fabbrica.
La scaletta segue i brani di Sanacore: O’ sciore cchiu’ felice, Maje, Pe’ dint’ ‘e viche addò nun trase ‘o mare.
A trent’anni di distanza, questi pezzi suonano ancora attuali, vivi. Ma non mancano incursioni da altri
album: Fa’ ammore cu’ me (Imaginaria), Water di Garden (Senghe, vincitore della Targa Tenco 2023), The
Cheap Guru (4/4). Il finale è da brividi: Figli di Annibale, Sanacore, Nun te scurdà. La musica, qui, è ancora
strumento di resistenza e speranza.
Alle 23:15 le luci si spengono di nuovo. I Mogwai salgono sul palco, preceduti dalla proiezione pomeridiana
del documentario If the Stars Had a Sound, presentato da Carlo Massarini ed Enzo Mansueto. Un viaggio
nella loro storia che prepara perfettamente il terreno per il live.
La musica è l’unica vera protagonista della serata. L’apertura non delude e ci trasporta subito in territori
lontani, tra paesaggi sconfinati e distese incontaminate. È il momento di God Gets You Back, brano delicato
e denso, che introduce l’atmosfera sospesa di The Bad Fire: un disco nato nel dolore e nella rinascita, che
racconta la fragilità con lucidità emotiva. Seguono Hi Chaos, How to Be a Werewolf e Pale of Vegan Hip Pain
prima della malinconica Take Me Somewhere Nice. La scaletta si snoda con rigore e sensibilità, alternando
elettronica pulsante, silenzi carichi di tensione, dolci ballate post-apocalittiche. Tutto scorre con armonia e
fluidità. Mi lascio trasportare dalle lunghe code strumentali, dalle indiscusse doti tecniche e dalla spiccata
sensibilità. Il silenzio rigoroso del pubblico, le melodie morbide di raffinata dolcezza ma non prive di
spaventoso turbamento, le sonorità elettroniche, l’atmosfera rarefatta. La serata si presenta intensa e
molto suggestiva.
Nella seconda parte, il viaggio si fa più denso. Si susseguono una dietro l’altra, intervallate solo dai
ringraziamenti in italiano prima e in inglese poi di Stuart, Hunted by a Freak, Every Country’s Sun, Auto
Rock, Remurdered e Fanzine Made of Flesh, tappe di un percorso emotivo che culmina nel gran finale,
decisamente perfetto: We’re No Here è pura potenza, una scossa elettrica; Lion Rumpus una cavalcata
danzante che porta energia nuova. Seguono la commovente Ritchie Sacramento, dal cantato dolce e
sussurrato quasi un addio e Mogwai Fear Satan: pura catarsi.
I Mogwai sono un luogo interiore dove perdersi per poi ritrovarsi. Ci insegnano che anche il rumore può
curare e che la malinconia può avere la forma di un disco post-rock, potente e strumentale, proprio come
The Bad Fire.
Gli Almamegretta, dal canto loro, ci ricordano che contaminare non è solo un gesto stilistico, ma un atto
poetico e, in primis, politico dunque necessario. Sanacore non è semplice nostalgia. Manifesto di una
Napoli meticcia e globale, è ancora oggi simbolo di libertà, identità e resistenza sonora.
Due album, due visioni diverse ma affini. Due modi di attraversare il presente e di raccontarlo.
E alla fine, resta il silenzio. Ma non è un silenzio vuoto.
È denso, vibrante, attraversato da bassi che ancora pulsano sotto pelle. È fatto di fotogrammi che ancora
scorrono lenti; di parole che continuano a risuonare; di sguardi fugaci.
È un silenzio che accoglie, che contiene tutto ciò che è stato. Un silenzio pieno di gratitudine.
Un silenzio che custodisce.
“L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo
tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a
molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige
attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è
inferno, e farlo durare, e dargli spazio.” Italo Calvino
Scaletta – Almamegretta
1. Ammore Nemico
2. O’ Sciore Cchiu’ Felice
3. Maje
4. Pe’ Dint’ ‘e Viche Addò Nun Trase ‘O Mare
5. Fa’ Ammore Cu’ Mme
6. Water di Garden
7. The Cheap Guru
8. Scioscie Viento
9. Ruanda
10. Figli di Annibale
11. Sanacore
12. Nun te scurdà
Scaletta – Mogwai
1. God Gets You Back
2. Hi Chaos
3. How to Be a Werewolf
4. Pale Vegan Hip Pain
5. Take Me Somewhere Nice
6. Hunted by a Freak
7. Every Country’s Sun
8. Auto Rock
9. Remurdered
10. Fanzine Made of Flesh
11. We’re No Here
12. Lion Rumpus
13. Ritchie Sacramento
14. Mogwai Fear Satan
Articolo e foto scattate col cellulare di Antonella Di Benedetto